Il nostro progetto per curare i bimbi ucraini: ridiamogli il sorriso

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Oggi sono passati esattamente 365 giorni dall’inizio della Guerra in Ucraina. Il conflitto ha stravolto uno Stato e le vite di milioni di persone e, come sempre accade, a farne le spese sono i più fragili: donne, anziani, bambini.

Città della Speranza si è chiesta come poter aiutare chi non si può curare perché gli ospedali non ci sono più, mancano le medicine, il personale medico… Allora ha costruito insieme ad Ail Padova un progetto che supporta i bimbi ucraini che non hanno accesso alle cure nel proprio Paese. Vi vogliamo raccontare cosa stiamo facendo partendo dalle voci di chi si è speso in prima persona per fare in modo che questo piano diventasse realtà. Partiamo dall’inizio.

Franco Masello, fondatore di Città della Speranza racconta che l’idea dicostruire qualcosa di concreto per questi bambini è stata immediata «appena abbiamo visto che ai confini della Polonia si stavano ammassando donne e bimbi, parliamo dei primi mesi del conflitto». Il primo pullman trasportava quaranta persone, «all’inizio io ne ho ospitati nove e anche altri volontari hanno fatto altrettanto». Chi poteva ha aiutato, mettendo dei soldi, un alloggio, un mezzo.
E poi? «La Fondazione ha chiesto ad altre associazioni di supportare i bimbi malati oncologici che partivano dall’Ucraina e arrivavano qui. – spiega Masello – Un gruppo di nostri volontari si è attivato per il trasporto di mamme e bambini, poi è stato aperto un conto corrente per supportare queste famiglie anche a livello economico. Abbiamo raccolto circa 100mila euro».
«Per avere strutture adeguate ci siamo accordati con l’Ail di Padova: loro seguono la questione logistica e noi quella economica (trasporti, vitto, alloggio), quella ospedaliera è invece di competenza della Regione». Ed è proprio l’Ail la seconda voce di questa storia che intreccia solidarietà, collaborazione e coraggio.

Laura Carbognin è consigliera dell’associazione e da trent’anni organizza attività per i bimbi nel reparto di Oncoematologia pediatrica di Padova. Lei coordina i volontari e il suo gruppo si chiama “Arrivano i Nostri” e dietro questo nome c’è una storia dolcissima. «Ci hanno battezzati così i bambini ormai dodici anni fa – racconta – prima eravamo solo “i volontari”. Un giorno gli abbiamo chiesto come potevamo chiamarci e loro ci hanno dato questo nome». I piccoli pazienti sono sempre molto contenti di poter fare delle attività che li distraggano delle terapie.
Carbognin si ricorda quando è arrivata la prima mamma ucraina con il suo bimbo a Padova: «L’inizio non è stato semplice perché la barriera linguistica c’è, serve pazienza, però facciamo piccoli passi avanti». C’è una volontaria che da mesi va nella casa di accoglienza Ail a insegnare l’italiano proprio per abbattere questa barriera, che i bimbi riescono a scavalcare molto più facilmente degli adulti.

E in reparto invece cosa succede? Lo racconta Mara Cavaliere, caposala che lavora qui dal 1987. «Il primo bambino ucraino è arrivato alcuni giorni prima dell’inizio della guerra e non mi ha mai chiesto nulla se non la Coca-Cola – racconta Cavaliere -. Oggi non c’è più… Gli ho dato il cuore, io come tutto il reparto mi sono affezionata tantissimo». Poi sono arrivati i tre bimbi che ora stanno seguendo le terapie e lei dice che se li «sentono tutti dentro» perché «oltre alla guerra hanno anche la sfortuna della malattia e il resto della famiglia è in Ucraina. Uno di loro a Natale ci ha chiesto se poteva avere qui la sorellina. Prima ho detto no, – dice Cavaliere – poi ho ceduto».
Tutti in reparto e non solo si sono mossi per supportare queste famiglie e lei lo conferma: «Mi chiedevano, “Mara ma ne hanno di soldi per mangiare? Possiamo portarti del materiale?”».
Due dei bimbi sono maschi, hanno cinque anni e sono «molto esuberanti», la bambina invece ne ha dieci ed è «più tranquilla». «Sono impauriti e le mamme ancora di più. Una di loro sta provando ad imparare l’italiano per venirci incontro».
Ianuslav è il primo dei tre ad essere arrivato, insieme alla sua mamma che ha 24 anni. A Monselice erano in una delle strutture di prima accoglienza del Veneto e lui «correva per il corridoio con il triciclo» dice Cavaliere che lo è andata a prendere insieme alla mamma. Lei ha chiesto se dovesse pagare qualcosa per le cure, ma è stata subito rassicurata che «non ci doveva nulla».
Yuri invece è arrivato in Italia durante il conflitto e si è ammalato in un secondo momento. «La sua mamma è molto brava, – dice Mara – ci aiuta davvero». Bohdana, la bambina, è arrivata a Padova passando per il Trentino. «A Natale abbiamo fatto arrivare il suo papà ed è stato bellissimo, loro sono persone molto povere e lo hanno visto come un regalo». Dopo sei mesi di cure Yuri è guarito e la volontà dei genitori è di tornare in Ucraina, casa loro.

La lingua è un ostacolo oggettivo nella comunicazione tra le mamme e chi lavora nel reparto, ma c’è una persona che riesce a far capire tutti, Irina Matviiuk. Anche lei come Mara è infermiera, è ucraina e spesso fa da interprete e traduttrice. «Le famiglie sono sotto pressione per la lingua ed è un sollievo avere chi li capisce» dice Irina e aggiunge che quello che la colpisce di più «è la loro estrema fragilità, il peso doppio che portano».
Oltre agli argomenti strettamente medici le mamme parlano «di cose personali, dei loro parenti in Ucraina (e io parlo dei miei), di come va la guerra». I bimbi invece imparano facilmente la lingua e hanno iniziato a dire qualche parola di italiano dopo pochi giorni dal loro arrivo. «Tra loro e i bambini italiani c’è uno scambio, giocano insieme e trovano velocemente un modo con il quale poter comunicare».

Grazie a tutti quelli che ci stanno aiutando a portare un sorriso nelle vite di questi bambini e delle loro famiglie.

 

 

Articolo pubblicato: venerdì, 24 Febbraio 2023