Ricordando il Prof. Luigi Zanesco

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Il terrore negli occhi dei bambini. Le urla disperate delle mamme.
Le nonne aggrappate a famiglie andate in frantumi. E quelle brandine aperte di notte fra una culla e l’altra. Richiuse all’alba e ficcate in terrazzo perché spazio non ce n’era. Un’umiliazione che infieriva su una diagnosi già impietosa, come se non fosse bastato il dolore delle cure.
Arrivavano da noi da tutto il Veneto, con il loro carico di angoscia. Che io ricevevo nello sgabuzzino. Quello era lo studio che avevo a disposizione. Quei bambini in quaranta giorni non c’erano più. All’inizio era così. La leucemia se li portava via tutti. E io sognavo un reparto più dignitoso, dove accogliere le mamme e dar loro tutto il supporto necessario. Perché quando un bambino si ammala è anche la mamma che va curata e accudita. Mamma e bambino sono un’unica entità, inscindibile. Se vuoi far stare bene l’una devi far stare bene l’altro e viceversa. E pensare che prima degli anni Settanta in ospedale i piccoli pazienti venivano separati dai genitori. Una inutile crudeltà. lo volevo che il mio reparto si prendesse cura di tutta la famiglia e la tenesse unita in un momento così drammatico della vita. E che tutto il personale fosse formato per rispondere a questi bisogni. Se ottieni la fiducia di un bambino, e se lui la legge negli occhi della sua mamma, si lascerà fare qualsiasi cosa. Li ho sempre curati così, cercando di conquistare la loro fiducia. Ma se devo dire come ho fatto non lo so proprio spiegare.
Bisognerebbe chiederlo agli psicologi. Fatto sta che ho talmente desiderato e immaginato quel reparto dalle cure più umane, che quando è arrivato da Vicenza Franco Masello con la sua idea di far nascere la Città della Speranza mi sono subito dato un gran da fare con il fundraising: oggi si definisce così ma la mia è stata una vera e propria questua alla porta di tutti gli industriali della zona e di tutte le persone di buona volontà. I soldi sono fortunatamente arrivati – Masello aveva quel suo modo di pontificare, moraleggiare e commuovere – e abbiamo potuto completare la nuova Clinica, non senza il contributo importantissimo e decisivo dell’ingegner Gaetano Meneghello, una persona brava al di sopra di ogni immaginazione.
Il nuovo reparto era così bello e così accogliente che più di una volta mi sono capitati pazienti che non se ne volevano tornare a casa.
Siamo riusciti nell’intento di restituire una vita vivibile, a misura di bambino, con i giochi e la scuola, anche in ospedale. E nel frattempo le cure hanno fatto passi da gigante. La leucemia oggi non è più il mostro invincibile.
Negli anni Sessanta c’erano circa 800.000 bambini nel Veneto. Ridotta la mortalità per gastroenterite, scacciati gli spettri della tubercolosi, sifilide, poliomielite e difterite, restava la leucemia come minaccia imprevedibile e inarrestabile e fonte di angosce in tutte le famiglie. La leucemia esisteva anche prima ma colpiva senza che la gente e neppure i medici la conoscessero: il bambino moriva per emorragie o infezioni gravi che erano solo fenomeni avvertibili della leucemia di cui non si conosceva la diagnosi.
La diagnosi si precisò in modo elementare negli anni Trenta e impaurì la gente che si vedeva annunciata la morte inesorabile di un bambino, giorni o settimane prima che avvenisse. Perciò i piccoli pazienti erano portati nei pochi centri universitari (nel Veneto esisteva solo Padova), nella speranza di bloccare la terribile sentenza. Una volta arrivati in reparto a Padova e ricoverati, potevano sopravvivere per altri trenta, quaranta giorni, grazie ad una terapia palliativa approssimativa. Poi morivano. A quell’epoca nessuno sopravviveva. Da allora al 2005 (data del mio pensionamento) ho curato cinquemila bambini: milletrecentonovantanove sono morti e quasi tutti nel primo periodo, quando ancora non avevamo messo a punto il cocktail chemioterapico che si è rivelato efficace nel combattere la patologia.
Il primo provvedimento efficace si deve al Prof. Panizon che nel 1967 suggerì la polichemioterapia, cioè la somministrazione di farmaci antiblastici non in sequenza, uno dopo l’altro, ma tutti insieme. lo frequentavo in quel tempo un famoso professore a Parigi, Jean Bernard, che portò ad un’importante modifica, distinguendo le associazioni di farmaci che agiscono quando la leucemia è in fase acuta rispetto a quelle che agiscono di più quando la malattia è in fase silente. Quando questo nuovo schema venne sperimentato anche qui in reparto i bambini riuscivano a sopravvivere molti più mesi. Questo ha costretto la Clinica a predisporre un reparto più ampio dove i pazienti fossero lontani dal contagio di altri bambini, e dove anche le madri potessero essere ospitate. L’aspetto della terapia specifica non fu però il solo impegno a dover essere predisposto: quello che dovevamo seguire con attenzione era anche l’aspetto umano. La cosa più importante che ho fatto è stato di cercare la collaborazione e l’aiuto morale e pratico delle famiglie, ricevendo un riscontro enorme.
Questa filosofia ho cercato di trasmetterla anche ai medici che erano in reparto: hanno tutti accettato di dedicare non solo attenzione alla malattia ma tutto il restante loro tempo ai loro assistiti.
Ho poi cercato di trasmettere questi concetti al personale infermieristico, desiderando che l’empatia e la collaborazione con le famiglie fosse un’idea fondante del nostro reparto. La vera rivoluzione fu qui, nel modo di curare il paziente, nella presa in carico e nell’assunzione di impegno rispetto a tutti i membri della famiglia. È la famiglia, la mamma in particolar modo, a guidare il comportamento dei bambini. E il bambino non va soltanto curato, va seguito, anche se le possibilità di guarigione sono scarsissime o addirittura nulle. La scienza, da sola, non cura i bambini.
Alcuni pazienti che ho curato dalla leucemia negli anni Sessanta sono ancora vivi! Ne ricordo la prima in particolar modo, arrivata in reparto a circa dieci anni, che ora è sulla soglia dei sessanta. Lei è la nostra bandiera: si è sposata, ha fatto due figli… so tutto di lei e della sua storia. Prima ancora che nascesse la Fondazione, nei primi anni Ottanta, è giunto all’orizzonte il trapianto di midollo, quello che considero un importante passo avanti nella cura dei malati di leucemia (e non solo). Per fare il primo trapianto qui in reparto a Padova abbiamo lottato contro tutti. “Assassini. Voi ammazzate i bambini!” ci dicevano, sapendo che le cure preliminari del trapianto erano costituite da chemioterapia a dosi sovramassimali.
La prima bambina trapiantata a Padova (e in Italia in un reparto pediatrico) aveva tre anni, si chiamava Claudia, aveva gli occhi neri, sorrideva poco ma si muoveva molto. Ha ricevuto il midollo della sorella… ed è tuttora vivente. Adesso i bambini e ragazzi vivono sempre meno in reparto, i tempi di cura si sono snelliti e ristretti sensibilmente. Il che è indubbiamente un bene. Il mio auspicio è che, anche se i bambini vivono per breve tempo la dimensione reparto, il rapporto di fiducia reciproca, di empatia e di familiarità col personale medico non venga mai meno.
In un futuro prevedo una rivoluzione nel modo di affrontare il tumore infantile: con lo studio sempre più approfondito del genoma si punterà non solo su una diagnosi più raffinata e quindi su trattamenti più razionali, ma anche sulla possibilità di una “prevenzione” con la modifica dei difetti genici. Un sogno? Non credo: però penso che per poterlo realizzare bisogna percorrere un’unica strada che utilizza moltissime risorse di mente e di cuore: ed è la strada della ricerca scientifica. Si potrà fare una diagnostica su tutti i neonati e, qualora emerga qualche criticità, procedere con la possibile correzione.
Chiaramente questa operazione è delicatissima e molto complessa, cambiare il DNA umano prevede una sua conoscenza dettagliatissima e approfondita, ma credo che il futuro andrà in questa direzione.

Luigi Zanesco
Ordinario di Clinica Pediatrica di Padova fino al 2005

Testimonianza raccolta da Francesca Trevisi (leggi tutte le testimonianze)

Articolo pubblicato: martedì, 9 Agosto 2022